Pat Nevin, calciatore e musicista
L’articolo che vi proponiamo è tratto da Rovesciate, il dodicesiamo uomo del calcio, un blog coi controcazzi! (sì, lo so; questo genere di latinismi non garba a tutti..ma noi abbiamo uno spirito beat!)
Pat Nevin: dribbling, schitarrate e lettini
«Sì, Joy Davidson è davvero uno dei miei cantanti preferiti». Classica tirata per il culo a un giornalista pronto a bersi ogni virgola dell’intervistato. I più sgamati avranno capito che il fantomatico Joy Davidson non è mai esistito e che in realtà è/sono i Joy Division, band-mito della new wave inglese il cui culto è sopravvissuto nei decenni alla morte dello sciamanico cantante Ian Curtis, suicida nel 1980 a soli 24 anni. Fin qui tutto lineare. L’autore della presa in giro, però, non è il front-man faccia da schiaffi di una delle tante “next big thing” del rock britannico che si sono bruciate rapidamente fra prime pagine dei tabloid e concerti ad alto tasso alcolico. E nemmeno un comico dotato del pungente sarcasmo british. A rispondere così allo sciagurato giornalista e a compiacersi della pubblicazione – “ancora oggi”, si legge in qualche articolo comparso su di lui in rete – fu Pat Nevin, guizzante ala scozzese con una più che dignitosa carriera fra anni ’80 e ’90, in particolare con le maglie di Chelsea ed Everton.Talentuoso ma piuttosto discontinuo, sul campo il ragazzo di Glasgow era privo di quella “garra” che avrebbe potuto fare di lui una star di prim’ordine in un calcio che lentamente stava mutando pelle, trasformandosi da sport del popolo nell’attuale macchina mangiasoldi della Premiership. Anche perché nell’universo pallonaro di allora, in cui gli atleti non erano ancora le star globali coccolati da sponsor e impegnati in migliaia di attività parallele, Pat era un alieno calato da Marte. Nello spogliatoio i compagni di squadra, che impiegavano gran parte del loro tempo libero prevalentemente in pesanti sessioni alcoliche al pub o in qualche partita di freccette, lo chiamavano Weirdo. Un soprannome di cui lo scozzesino è sempre andato orgoglioso. Con il suo taglio di capelli simile all’acconciatura del chitarrista di qualche band new romantic e lo sguardo sbilencamente malinconico, Pat era diverso dai suoi team mates fin dal look.
Negli anni in cui il football iniziava a uscire dall’era ruspante di capelli da macellaio o da paggetto ubriaco e baffoni per entrare nell’era in cui ogni delitto tricologico è stato commesso, all’insegna di una tamarritudine fattasi regola di vita, Pat Nevin appariva deliziosamente fuori posto. E, limitatamente al panorama calcistico, anche fuori moda. L’ala che da adolescente fu bocciata dal Celtic perché “troppo piccolo”, era sintonizzato con la gioventù che affollava i concerti di Sister of Mercy e New Order e, qualche tempo dopo, si sarebbe buttata a capofitto nel trip acido delle serate in locali come Factory e Hacienda, a ballare e stordirsi sui ritmi di Stone Roses, Happy Mondays, James e Charlatans.
Pat Nevin leggeva libri (letteratura francese e russa, per inciso, mica robette), i suoi compagni no. Pat Nevin era a favore del disarmo nucleare e lo diceva a chiare lettere nelle interviste, per i suoi compagni le bombe erano solo quelle della pagina 3 sul Sun. Pat Nevin andava per mostre e musei, i suoi compagni andavano a scommettere sulle corse dei cavalli e dei cani. Pat Nevin era amico di Vini Reilly, il chitarrista dei Durutti Column, i suoi compagni no. Pat Nevin – questo non l’ho trovato, ma ne sono pressocché sicuro – sapeva cosa fosse la Durruti Column, il gruppo anarchico da cui la band mancuniana aveva preso il nome, shakerandone lo spelling; i suoi compagni no.
Pat Nevin era anche dannatamente bravo a giocare a calcio. O meglio, era dannatamente bravo a giocare in quel modo che faceva impazzire gli inglesi fra anni ’70 e ’80, poco avvezzi ai pedatori di classe. Dribbling, finte, sprint sulla fascia, cross al bacio, inserimenti precisi, colpi velenosi. Il ragazzo classe ’63 inizia a tirare calci nel Celtic Boys Club. «In quella squadra – ricorda Pat – c’era un senso della comunità quasi da gesuiti. O da socialisti. Molto da ‘tutti per uno, uno per tutti’. La maggiore importanza del gruppo sull’individuo mi è stata insegnata da quando ero piccolo.» Tutti per uno e uno per tutti, sì. Ma l’uno, in questo caso, appare davvero sopra le righe. Il piano di sopra chiama Pat. Un provino con il Celtic. Un sogno per lui, tifoso dei bhoys sin dalla tenera età (poi, nauseato dagli estremismi settari dell’Old Firm, si innamorerà dell’Hibernian). Il test non va male. Il fisico, però, suscita più di un dubbio. Troppo gracile. Respinto. Pat non si scompone. Accetta la chiamata del Clyde, squadra della zona a sud-est di Glasgow. Prende per mano il team e lo aiuta nella corsa alla promozione dalla seconda divisione.
Su quell’aletta tutto pepe si appuntano le attenzioni anche delle società di “south of the boarder”. La spunta il Chelsea. Un altro scozzese nello stesso anno, il 1983, si trasferisce da Glasgow a Londra. È Charlie Nicholas, potente centravanti del Celtic che nell’Arsenal deluderà, almeno in parte, le aspettative dei tifosi gunners. A Londra Pat si sistema alla grande. È una delle star di una squadra ampiamente rinnovata e alle prese on una traversata nel deserto fra le glorie degli anni ’60 targate Osgood, Hollins, Cooke e Bonetti e il periodo di spese pazze abramovichiane iniziato a metà anni ’90. I tifosi si innamorano di lui. Lo chiamano “Wee Pat”.
Nevin si diverte in campo e fuori. Londra a metà anni ’80 è il massimo per un giovane appassionato di musica fuori dagli schemi. E c’è un vantaggio in più per un tipo refrattario agli eccessi della popolarità. «Solitamente un calciatore non può stare fuori al venerdì – spiega – ma se sei a un concerto dei Jesus and the Mary Chain nei quartieri est difficilmente qualcuno ti riconosce».
E per essere del tutto al sicuro Pat può approfittare dei suoi gusti in fatto di moda. Con addosso il suo cappotto di pelle nera dal bavero alzato si confonde con il 90% degli spettatori dei concerti new wave e dark. Nell’84, dopo aver realizzato il gol che praticamente vale la promozione per il Chelsea in un match contro il Manchester City a Maine Road, decide di concedersi una serata di festeggiamenti. «Mi ritrovai a trascorrere la notte alla stazione di Piccadilly – ricorda – perché dopo la partita ero andato a fare quattro salti all’Hacienda, che allora non era troppo popolare. Oltre a me ci saranno state altre otto persone». Di lì a qualche anno, con l’esplosione della scena ribattezzata Madchester centinaia di giovani faranno la fila per entrare nel club, trasformatosi di fatto nella “casa” del nuovo sound.A Londra il giocatore amplia notevolmente i suoi interessi musicali. Riesce anche a sfruttare una situazione all’apparenza frustrante. Un anno dopo il suo arrivo, reduce da un ottimo campionato, Pat va a bussare a denari dal patron dei Blues, l’istrionico Ken Bates. Sulle prime la distanza fra la domanda e l’offerta è ampia. La trattativa va per le lunghe. In precampionato il Chelsea affronta il Brentford. Quella sera alla Royal Festival Hall suonano i New Order, la band nata dalle ceneri dei Joy Division. Nevin ne va matto. Alla fine del primo tempo gioca il jolly. «Se non mi sostituisci – dice all’attonito manager John Neal – non firmerò il nuovo contratto». L’allenatore non può fare a meno della verve della sua ala titolare. Cede. Pat si toglie pantaloncini e maglietta, si cambia e si catapulta al concerto. A Londra lo scozzese si toglie tante soddisfazioni simili a quelle sognate da tanti fan della musica che, per vivere, non tirano calci a un pallone. Solo una volta è costretto a fare leva sulla sua notorietà. Accade nel caso dell’incontro con John Peel, il mitico dj e giornalista “responsabile” della scoperta di tonnellate fra cantanti e band di culto. Le sue “Peel Sessions”, in gran parte piccoli live in studio di una manciata di pezzi, hanno rappresentato una sorta di esame di maturità per tutti i grandi interpreti e songwriter dagli anni ’60 in avanti.
Per Pat è un idolo. La sera, a meno di impegni con la squadra, si sintonizza sempre sulla Bbc per ascoltare il programma dell’espertissimo Peel. »Quello che più volevo era intervistarlo – ricorda Nevin – Che poi era una scusa per incontrarlo. Scrissi una lettera e lui mi rispose molto cortesemente, dicendo che aveva un sacco di impegni e al momento non poteva ricevermi. Così per la prima e ultima volta nella mia carriera mi giocai la carta della fama». Nevin, infatti, sa che Peel è un grandissimo tifoso del Liverpool. «Scrissi una seconda lettera e dissi che giocavo in una squadra di football e che di lì a qualche settimana saremmo stati in trasferta ad Anfield. Peel mi telefonò il giorno dopo. ‘Perché non me l’avevi detto prima?’. ‘Non potevo’, risposi io». È l’inizio di una lunga amicizia, cementata da viaggi condivisi per assistere a concerti in giro per l’Inghilterra. E a proposito di conoscenze vip, Nevin ha l’opportunità di cenare a casa di Morrissey, il bizzoso cantante degli Smiths. Il giocatore si reca nella lussuosa abitazione di Moz, una villa su più piani con tanto di torretta, insieme a Vini Reilly. «Morrissey – ricorda Pat – aveva comprato un pianoforte apposta perché Vini potesse suonarlo quella notte». Ai due viene offerto di fare un tour completo dell’umile dimora morriseiana. «Saltammo una stanza. Forse preferiva non mostrarcela. Alla fine lo convincemmo. Era la sua palestra personale superattrezzata». Qualcuno fra i compagni di squadra è incuriosito dagli interessi alternativi dello scozzese. Paul Corneville, il primo giocatore nero del Chelsea, scoprì una passione per Lou Reed grazie ai consigli di Nevin, che gli fece ascoltare “Walk on the wild side”. E Graham Le Saux che non riusciva a legare con nessuno, fu aiutato a uscire dal guscio proprio dal compagno di squadra. «Io e mia moglie – ricorda Pat – lo prendemmo sotto la nostra ala protettiva. Gli mostrammo cosa leggere e gli show a cui assistere». Il rapporto con i tifosi del Chelsea vive di alti – moltissimi – e qualche basso. È uno degli idoli di Stamford Bridge, tanto che quando sarà al Tranmere Rovers, la terza squadra di Liverpool, approfitterà di un turno di stop per godersi Everton-Chelsea a Goodison Park, pagando un biglietto per il settore ospiti. Allo stesso tempo non esiterà a stigmatizzarne i loro slogan razzisti e comportamenti violenti. La storia d’amore fra Pat e il Chelsea finisce nel 1988.L’ex Clyde viene votato ancora una volta giocatore dell’anno, ma i Blues retrocedono. Nevin viene ceduto all’Everton. Sulle rive del Mersey la vita è più dura. Non musicalmente, dato che Liverpool e la vicina Manchester hanno poco da invidiare alla capitale. È sul campo che il giocatore non riesce a dare il massimo. Nel sistema adottato dal manager Colin Harvey, Pat si sente imbrigliato. Gli schemi sono troppo rigidi e per la sua fantasia un po’ anarchica non c’è spazio. Si mormora anche che la dirigenza dei Toffee Man non impazzisca per il suo impegno nel sindacato dei giocatori. Nevin, oggi, preferisce spiegarsi le sue delusioni con la maglia dell’Everton facendo riferimento all’evoluzione del football nei primi anni ’90. «Avevo 28 anni e non mi ero mai sentito così in forma – riflette – eppure mi stavano per cedere. I giocatori come me non erano più tanto ricercati. Le squadre volevano rafforzarsi soprattutto fisicamente. Fu il Wimbledon a dettare la linea (con la Crazy gang che vinse la FA Cup del 1988 battendo in finale lo strafavorito Liverpool). Quando una squadra giocava contro il Wimbledon, il manager non schierava i suoi giocatori migliori, ma quelli più potenti». Il picco massimo della sua esperienza a Liverpool è la finale di FA Cup persa 3-2 con i cugini Reds nel 1989 (l’edizione della strage di Hillsborough), raggiunta grazie al gol della vittoria da lui segnato nella semifinale contro il Norwich City.
Nevin riesce a trovare un palcoscenico più adatto a lui scendendo di un gradino nel sistema delle divisioni inglesi. Si accasa al Tranmere Rovers. A Birkenhead dispensa perle di classe viste raramente sui campi della First Division, come viene ribattezzata la seconda categoria dopo la riforma della Football League nel 1992. In quell’anno partecipa con la Scozia agli Europei, centrati per la prima volta dalla Tartan Army. I ragazzi di Roxburgh non hanno troppa fortuna con il sorteggio e finiscono nel “gruppo della morte” con Germania, l’Olanda campione uscente e la Russia (allora nota come Csi, la cosiddetta Comunità degli stati indipendenti). Nevin gioca due scampoli di partita, contro la Germania (sconfitta 2-1) e Csi (vittoria 3-0). «Era una squadra molto unita – ricorda – Eppure io mi sentivo comunque un outsider». Meno male che in camera può chiacchierare di musica con Brian McClair. L’attaccante del Manchester United, infatti, è un altro grande esperto. Nevin ricorda così il loro primo incontro. «Una volta entrati in stanza – spiega – rimanemmo in silenzio per un po’. “Qual è il tuo nome?’, mi chiese. ‘Pat’, risposi io. ‘E il tuo?’. ‘Brian’. Ancora silenzio. Allora io estrassi una copia di New musical express dalla mia valigia e iniziai a leggerlo. Lui fece lo stesso con un numero di Sounds. Fu l’inizio di una grande amicizia». Nel ’97 Nevin, alla fine della carriera, compie il tragitto inverso e fa ritorno in Scozia. Gioca per il Kilmarnock (“in tempo per assistere a una rinascita della scena musicale scozzese, con band come i Belle and Sebastian”, afferma) e il Motherwell, squadra in cui assume per brevissimo periodo anche un ruolo dirigenziale (“la scelta più stupida della mia vita”, è il suo giudizio). Dopo il ritiro diventa opinonista per la tv, facendosi apprezzare per lo stile schietto e le dichiarazioni senza peli sulla lingua, e scrive un libro. Non la solita biografia. Il coautore di “In my head, son” è lo psicologo George Sik. Il volume racconta la stagione ’96-’97 vissuta con la maglia del Tranmere Rovers ed è realizzato come un dialogo fra Pat e lo specialista, in cui vengono analizzati problemi e riflessioni di un giocatore alla fine della carriera. Appesi gli scarpini al chiodo, Nevin sfrutta anche l’opportunità di condividere le sue conoscenze musicali dilettandosi come dj nei locali su e giù per il Regno Unito. Con brani di Camera Obscura, Pink Industry, Belle and Sebastian, Animal Collective e Fall i suoi set rivelano gusti sempre in evoluzione ma anche un’immutata passione per le storiche band che lo hanno accompagnato nei momenti liberi durante ritiri e viaggi in pullman per le partite in trasferta.
Terminiamo questo stupendo pezzo con un brano simbolo del Madchester, Step on degli happy Monday, pubblicato nell’album Pills ‘n’ Thrills and Bellyaches da etichetta Factory nel 1990: